mercoledì 17 ottobre 2007

UN PRINCIPIO PERICOLOSO!


MASSIMA

Occupazione abusiva di case popolari – stato di necessità – diritto all’abitazione – insussistenza [art. 54 c.p.; art. 2 Cost.]
Non si configura il reato di occupazione abusiva di case popolari se il fatto è commesso in stato di necessità.
Il “danno grave alla persona”, necessario per la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 54 c.p., si verifica non solo nel caso di lesioni dirette della vita o dell’integrità fisica del soggetto, ma anche nel caso di lesioni indirette: la mancanza di un alloggio costituisce un’ipotesi di lesione indiretta dell’integrità fisica, poiché il diritto di abitazione rappresenta un diritto primario della persona ex art. 2 della Cost
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Commento dello Studio Legale Giliberti & Partners: La Suprema Corte introduce un principio senz'altro lodevole dal punto di vista sociale ed umano ma incontrovertibilmente pericoloso dal punto di vista della tutela dell'ordine pubblico. In questa pronuncia della cassazione si da prevalenza al diritto di abitazione in quanto di rilevanza costituzionale, anche se a parere dello scivente l'art. 2 Cost. parla genericamente di "diritti inviolabili dell'uomo" facendo riferimento "all'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Appare chiaro il ricorso ad un'interpretazione estensiva della norma costituzionale che però va contro un orientamento consolidato secondo il quale "lo stato di bisogno può essere valutato ai fini della quantificazione della pena e della concessione delle attenuanti generiche, ma non legittima l'applicazione dell'esimente dello stato di necessità (sez. IV 85/169364), per la cui sussistenza si richiede un rigoroso rapporto tra l'azione e l'inevitabilità del pericolo di un danno grave alla persona, in quanto non è lecito sopperire allo stato di bisogno mediante commissioni di reato" .




SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 27 giugno – 26 settembre 2007, n. 35580
(Presidente Morelli – Relatore Zappia)
Motivi della decisione


Con sentenza del 4.2.2005 il Tribunale di Roma condannava D. G., concesse le circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 600,00 di multa, avendola ritenuta responsabile del reato di occupazione abusiva di immobile di proprietà dell'Iacp.Con sentenza dell'1.12.2006 la Corte di Appello di Roma confermava la decisione impugnata.Avverso tale sentenza l'imputata propone ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto diversi profili.Col primo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione dell'art. 606, co. 1, lett. d) ed e), c.p.p. rilevando la mancanza di motivazione in ordine al primo e terzo motivo dell'appello proposto, nonché il carattere solo apparente di tale motivazione in relazione alle questioni di merito poste; e rileva altresì la mancata assunzione di una prova decisiva richiesta ai sensi dell'art. 603 c.p.p.Osserva in particolare la ricorrente che la Corte di Appello aveva escluso lo stato di necessità dedotto da essa imputata in relazione alla contestata occupazione di immobile, senza svolgere alcuna indagine specifica in ordine alle effettive condizioni dell'imputata, alla esigenza di tutela del figlio minore, alla minaccia dell'integrità fisica degli stessi, al carattere assolutamente transitorio del ricorso ai servizi sociali; e rileva inoltre che la Corte suddetta non aveva assolutamente motivato in ordine al mancato accoglimento della richiesta di nuova audizione della teste Pozzi Rita (operante di P.G,. che aveva effettuato il sopralluogo), che avrebbe consentito un esame esaustivo della fattispecie concreta. Col secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione dell'art. 606, co. 1, lett. b) ed e), c.p.p. rilevando la inconsistenza della motivazione in ordine alla non applicazione dell'art. 54 c.p., quantomeno in relazione all'art. 59 dello stesso codice.In particolare rileva la ricorrente che la Corte territoriale non aveva adeguatamente valutato la sussistenza dello stato di necessità, rilevante non solo con riferimento al diritto all'abitazione ma anche con riferimento al diritto alla salvaguardia della salute del figlio, diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, non potendosi omettere di evidenziare che lo stato di pericolo per la ricorrente e per il proprio figlio non era imputabile ad una condotta alla stessa riferibile, non era altrimenti evitabile non avendo l'interessata alcuna possibilità di rivolgersi al mercato libero degli alloggi, e che il fatto commesso era proporzionato al pericolo che lo stesso era destinato scongiurare. Ed ha quindi concluso evidenziando che, se pur nel caso di specie la sussistenza dello stato di necessità non poteva essere affermata con obiettiva certezza stante la carenza nell'istruttoria dibattimentale, tuttavia non poteva nemmeno essere ragionevolmente esclusa, di talché si imponeva l'annullamento dell'impugnata sentenza.Il ricorso è fondato.Sul punto ritiene il Collegio di dover innanzi tutto evidenziare che, ai fini della sussistenza dell'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 c.p., rientrano nel concetto di "danno grave alla persona" non solo la lesione della vita o dell'integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, secondo la previsione contenuta nell'art. 2 della Costituzione; e pertanto rientrano in tale previsione anche quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l'integrità fisica del soggetto in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, fra i quali deve essere ricompresso il diritto all'abitazione in quanto l'esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona.Tale interpretazione estensiva del concetto di danno grave alla persona fa sì peraltro, siccome evidenziato da questa Corte (Cass. sez. II, 19.3.2003 n. 24290), che "più attenta e penetrante deve essere l'indagine giudiziaria diretta a circoscrivere la sfera di azione dell'esimente ai soli casi in cui siano indiscutibili gli elementi costitutivi della stessa - necessità e inevitabilità - non potendo i diritti dei terzi essere compressi se non in condizioni eccezionali, chiaramente comprovate".Nel caso di specie è stata per contro totalmente omessa qualsiasi indagine sia al fine di verificare le effettive condizioni dell'imputata, l'esigenza di tutela del figlio minore, la minaccia dell'integrità fisica degli stessi, sia al fine di verificare la sussistenza sotto il profilo obiettivo dei requisiti delle necessità ed inevitabilità che, unitamente agli altri elementi richiesti dall'art. 54 c.p., consentono di ritenere la sussistenza dell'esimente in parola.Alla stregua di quanto sopra si impone l'annullamento dell'impugnata sentenza, rimanendo in tale pronuncia assorbiti gli ulteriori rilievi sollevati dalla ricorrente, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.
P.Q.M.
La Corte annulla l'impugnata sentenza e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.

martedì 2 ottobre 2007

CASSAZIONE: RISCHIA LA CELLA CHI NON SI FERMA AL POSTO DI BLOCCO

(AGI) - Roma, 1 ott. - Puo' finire in carcere per resistenza a pubblico ufficiale chi non si ferma a un posto di blocco dei Carabinieri e, in sella ad un motorino, si da' alla fuga ad alta velocita' per non essere raggiunto dalle Forze dell'ordine. Lo sottolinea la Cassazione, annullando con rinvio una sentenza pronunciata nel 2005 dal Gip del Tribunale di Palermo che aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di un ragazzo all'epoca ventenne "perche' il fatto non sussiste". L'imputato era accusato di non aver ottemperato, mentre era alla guida del suo ciclomotore, all'alt intimatogli dai Carabinieri con la paletta d'ordinanza. Il ragazzo, secondo l'accusa, era poi fuggito "ad altissima velocita' per le strade strette del centro storico, ponendo cosi' in pericolo l'incolumita' dei militari e degli utenti della strada". Il giudice per le indagini preliminari aveva invece ritenuto non ravvisabili in tale condotta gli estremi della resistenza, dato che l'imputato non aveva messo in atto, a suo parere, alcuna "attivita' minacciosa o violenta" nei confronti dei militari. Il reato, secondo il giudice, sarebbe stato ravvisabile se, invece, il ragazzo "per forzare il posto di blocco, avesse diretto il veicolo contro i Carabinieri che intendevano fermarlo". Contro tale decisione aveva proposto ricorso il procuratore della Repubblica del capoluogo siciliano, secondo il quale il reato di resistenza, per essere configurabile, non richiede che la violenza o la minaccia sia necessariamente diretta contro il pubblico ufficiale. Dello stesso parere la Suprema Corte (sesta sezione penale, sentenza n.35826) che ha ritenuto fondato il ricorso del procuratore. "Ad integrare l'elemento materiale del delitto in esame - spiegano gli Ermellini - e' sufficiente la violenza o la minaccia cosiddetta impropria, che puo' essere esercitata anche su persona diversa dal pubblico ufficiale operante o sulle cose e che comprende ogni comportamento idoneo ad impedire, a ostacolare o a frustrare l'esplicazione della pubblica funzione". .

giovedì 13 settembre 2007

DIRITTO E AZIENDE: RAPPORTO DAL DISTRETTO INDUSTRIALE DI SOLOFRA (AV)

Il distretto industriale della concia, una miriade di piccole e medie aziende manifatturiere del comparto tessile (lavorazione di pellami ovo-caprini) nel cuore della verde Irpinia, versa in evidente stato di affanno! Si susseguono a ritmo ormai incessante cassa integrazione, mobilità, procedure concorsuali e fallimenti! Il tessuto economico del distretto sta mostrando tutti i segni di una crisi strutturale ormai irreversibile. I lavoratori e le piccole e medie aziende del comparto stanno pagando un prezzo senza precedenti in termini di concorrenza, pressione fiscale, accertamenti ispettivi, costi di produzione e disinquinamento. Una cultura imprenditoriale molto spesso segnata da scarso senso della legalità (usura, sfruttamento di manodopera clandestina , inquinamento ambientale e mancato rispetto delle norme di sicurezza e igiene sui luoghi di lavoro) ed un uso disinvolto degli strumenti giuridici tipici del pagamento (assegni, cambiali e altre forme di obbligazioni) o della costituzione e conduzione dell'impresa (sistema delle scatole cinesi, prestanomi, società a responsabilità limitata, reati fiscali). Un quadro a tinte fosche che però mostra anche realtà di eccellenza e aziende sane che sono sul mercato da anni e seppur in evidente difficoltà, per la concorrenza dei prodotti stranieri e il sussistere di una serie di cause ambientali e socio-politiche ormai endemiche, resistono e tengono alto il nome del Made in Italy. Dal punto di vista giuridico-economico i fattori di debolezza tipici del distretto possono riassumersi in uno scarso ricorso a forme di cooperazione e aggregazione tra aziende, un sistema creditizio composto da grandi gruppi finanziari molto spesso distanti dalle esigenze locali (Banca della Campania, Banco di Napoli-IMI S.Paolo, Monte Paschi di Siena, Banca Torre del Graco sono gli istituti di credito presenti stabilmente sul territorio comunale), servizi alle piccole e medie imprese in prevalenza affidati a professionisti esterni alle aziende, mancanza di un centro direzionale che possa coordinare il sistema distretto, esistente di fatto solo sulla carta.
Le forme di costituzione aziendale in prevalenza utilizzate e il subentrare a società di persone, società di capitali o ditte individuali facenti capo a prestanomi o nel migliore dei casi a persone c.d. "pulite" (S.r.l., Società Unipersonali, Ditte individuali fittizie) sottintendono una scarsa propensione al rischio imprenditoriale e situazioni pregresse di esposizioni debitorie con maestranze, fornitori, enti pubblici o a rilevanza pubblica e istituti di credito. In questa situazione il mondo della professione legale affronta assieme ai lavoratori e alle aziende i rischi di un sistema economico che vede ormai necessaria una riforma profonda delle sue regole anche e soprattutto dal punto di vista giuridico!

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STUDIO LEGALE GILIBERTI & PARTNERS
Via Starza n° 5 - 83029 Solofra (AV)-Tel e fax 0825 582860/1918098

lunedì 3 settembre 2007

IL MOBBING NON E' REATO

Il mobbing non è un reato previsto dal nostro codice penale. Dunque chi malauguratamente incappa in vessazioni sul luogo di lavoro, può soltanto intraprendere una causa civile e chiedere il risarcimento del danno. E' quanto spiega la Cassazione (quinta sezione penale, sentenza n.33624) confermando la decisione del gup di Santa Maria Capua Vetere che aveva pronunciato il non luogo a procedere dei confronti di un preside. Il dirigente scolastico era stato accusato da una docente di "lesioni personali volontarie gravi in ragione dell'indebolimento permanente dell'organo della funzione psichica", in sostanza mobbing. Il giudice, però, aveva ritenuto "insostenibile" la tesi, espressa dall'accusa e dal consulente tecnico, rilevando che non era possibile individuare un atto a cui fossero riconducibili le cause della malattia della docente. Contro tale sentenza, il pm e la parte offesa si erano rivolti alla Suprema Corte, la quale però ha rigettato i ricorsi. "Con la nozione di mobbing - spiegano i giudici della Cassazione - si individua la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del lavoratore, onde considerare una vera e propria condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo di lavoro". Difficile, però, inquadrare la fattispecie "in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione". La figura di reato più vicina ai connotati caratterizzanti il mobbing, si spiega nella sentenza, "è quella descritta dall'articolo 572 c.p.(maltrattamenti), commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione". Nel caso in questione, la Suprema Corte, ha dunque ritenuto corretta ed esaustiva la motivazione addotta dal gup, poichè "non è dato vedere - sottolineano i giudici - quale azione possa ritenersi illecita e causativa della malattia della docente". Di seguito il testo integrale della Suprema Corte:


Corte di Cassazione – Sentenza n. 33624/2007
di Studio Legale Giliberti

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Quinta Sezione penale
ha pronunciato la seguente Sentenza sul ricorso presentato dalla Parte Civile Iliana C. e dal Pubblico Ministero di Santa Maria Capua Vetere avverso la sentenza di non luogo a procedere resa dal Giudice dell’Udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in data 3.11.2006 nei confronti di Giuseppe DE N.
Sentita la Relazione svolta dal Cons. Gian Giacomo Sandrelli
sentita la Requisitoria del Procuratore Generale nella persona del Cons. Giuseppe Febbraro che ha concluso per il rigetto dej ricorsi
in fatto.
Ricorrono avverso la sentenza di non luogo a procedere resa dal GUP presso il Tribunale di 5. Maria Capua Vetere nel processo a carico di Giuseppe DE N. sia il PM. sia la Parte Civile Iliana C. , lamentando entrambi sia la erronea applicazione della legge penale sia la carenza di motivazione. La vicenda attiene ad una annosa querelle tra la prof. Iliana C. , insegnante di sostegno presso l’istituto d’arte di San Leucio, ed il preside della scuola Giuseppe DE N. , sfociata in contenzioso amministrativo e, di poi, penale. L’accusa dedotta nell’attuale procedimento è di lesioni personali volontarie gravi in ragione dell’indebolimento permanente dell’organo della funzione psichica, in sostanza un comportamento riconducibile, come si esprimono le parti, nella condotta di mobbing
Il giudice ha reso sentenza liberatoria sostanzialmente ritenendo “insostenibile” la tesi (espressa da CT.) della riconducibilità alla nozione di lesione della mera alterazione del tono dell’umore attesa la natura transeunte ed assai comune e la difficoltà di individuare un atto a cui collegare eziologicamte la malattia.
In diritto
1) Sia le parti private sia il giudicante invocano, per l’attuale vicenda, la condotta di mobbing. Con la nozione (delineatasi nella esperienza giudiziale gliuslavoristica) di mobbing si individua la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’ emarginazione del lavoratore, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo di lavoro.
La difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione deriva — nel caso di specie — dalla erronea contestazione del reato a parte del P.M.. Infatti, l’atto di incolpazione è assolutamente incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata.
La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ ambiente di lavoro.
Pertanto la prova della relativa responsabilità “deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi che può essere dimostrata per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa “(cfr. Cass. civ., Sez. L, 6.2006, Meneghello/Uniedit Spa,).
2) E’ approdo giurisprudenziale di questa Corte che la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. ,mobbing è quella descritta dall’art. 572 c.p., commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione: si richiama, in tal senso, per una situazione di fatto giuridicamente paragonabile - in linea astratta - alla presente Cass., sez. VI, 22.1.2001, Erba.
Ove si accolga siffatta lettura, risulta evidente che, soltanto per l’ipotesi dell’aggravante specifica della citata disposizione, si richieda la individuazione della conseguenza patologica riconducibile agli atti illeciti.
3) Se questa è la premessa di diritto (richiamata dalle parti processuali nei loro ricorsi e dal giudice nella decisione impugnata), non è dato vedere - nella contestazione formulata dalla pubblica accusa verso il DE N. quale azione possa ritenersi illecita e causativa della malattia della C. . Non risulta - pertanto - illogica l’osservazione del giudice che lamenta la mancata individuazione degli atti lesivi, ciascuno dei quali difficilmente in grado di rapportarsi alla patologia evidenziata, malattia a sua volta non connotata da esiti allocabili cronologicamente - con sicurezza - quanto al suo insorgere, così da evidenziare l’autore del fatto illecito e le circostanze modali dell’azione lesiva).
D’altra parte, in carenza financo di una prospettazione espressamente continuativa (la condotta è, tuttavia, contestata “sino all’aprile 2003” senza richiamo all’art. 81 cpv. c.p.), è ben ardua la ravvisabilità del rapporto di cui all’art. 40 c.p. di una singola ingiuria o di una sola propalazione diffamatoria o intimidativa (i cui contorni restano oscuri, non essendo assolutamente specificati nell’addebito di accusa). Gli stessi atti di impugnazione richiamano la pluralità di gesti ostili, senza che, peraltro, degli stessi vi sia indicazione (se non indebitamente generica) nella formale incolpazione. Non è, conseguentemente data la ravvisabilità dei parametri di frequenza e di durata nel tempo delle azioni ostili poste in essere dal soggetto attivo delle lesioni personali, onde valutare il loro complessivo carattere persecutorio e discriminatorio.
4) Trascurando quanto attiene alla già resa valutazione della prova, incompatibile con il giudizio di legittimità, le censure addotte sono infondate poiché pretendono dal GIP di considerare una “reiterazione” di condotte, non compiutamente contestata; inoltre riferita ad azioni in sé prive di potenzialità direttamente lesiva dell’integrità della vittima (come ingiurie, diffamazioni, ecc.), o prive di riscontri di esiti obiettivamente dimostrabili. Per questa ragione, non si rileva né carenza né illogicità della motivazione, attesa la radicale insufficienza della contestazione a contenere possibili sviluppi dibattimentali dell’accusa (ben avendo potuto, già in sede di udienza preliminare, il PM. procedere a più confacente contestazione) ed a sviluppare un possibile compendio probatorio ex art. 422 c.p.p., onere che grava principalmente sull’organo di accusa. I ricorsi vengono rigettati, da tanto consegue la condanna della parte civile al pagamento delle spese del procedimento.
PQM
Rigetta i ricorsi e condanna la parte Civile al pagamento delle spese del procedimento. >p>Depositata in Cancelleria il 29.08.2007

Studio Legale Giliberti

giovedì 30 agosto 2007

ADUSBEF A BANKITALIA: GIU' LE MANI DALLA LEGGE ANTIUSURA!

“Il sistema del credito, per risultare ancora più efficace nel contrasto al fenomeno dell'usura, dovrebbe "tornare a riflettere sul tema dell'opportunità della fissazione in via amministrativa di tassi soglia bancari". A sostenerlo, nel corso di un'audizione in Senato, è il vice direttore generale di Bankitalia, Giovanni Carosio. E’ l’ennesimo vergognoso colpo di spugna, richiesto ancora una volta dalla Banca d’Italia per sanare comportamenti scandalosi delle banche le quali, nonostante la legge 108/96 che impone limiti oltre i quali i prestiti diventano usurari,hanno continuato a praticare tassi esagerati ai correntisti, maggiorati dalla commissione di massimo scoperto trimestrale più che raddoppiata. La legge 108/96 venne approvata dal Governo di centro-sinistra dopo una lunga mobilitazione di cittadini e piccoli imprenditori “strozzati dalle banche”,capitanati dall’Adusbef , che fece presentare un testo mediato dalla legge francese a Camera e Senato, per tentare di arginare lo strapotere di istituti di credito che oltre ai tassi applicati su prestiti ed impieghi bancari, praticavano l’anatocismo (capitalizzazione trimestrale), con una maggiorazione della CSM (Commissione di Massimo Scoperto) che in alcuni casi raddoppiava i tassi applicati.I tassi soglia, al contrario di quanto sostiene Bankitalia con la finalità di salvare ancora una volta “banchieri amici” indagati dalle Procure della Repubblica per il reato di usura,non hanno effetti distorsivi sul mercato del credito,ma sono la fotografia dei tassi, per tipologie di prestito, applicati dalle banche nel trimestre precedente le rilevazioni e maggiorati del cinquanta per cento: ad esempio se la media dei prestiti per la cessione del quinto dello stipendio è del 20 per cento nel trimestre ottobre-dicembre, il tasso soglia da non superare nel trimestre gennaio- marzo è del 30 per cento. Ma per Bankitalia, non è scandaloso praticare tassi del 20 per cento su crediti ultra-garantiti e con zero sofferenze, come la cessione del quinto dello stipendio, rispetto ai tassi BCE del 3,75 per cento, che portano milioni di famiglie a rischio insolvenza; non è riprove-vole che le banche italiane facciano la “cresta sui tassi”, praticando saggi superiori del 2,25 per cento sul credito al consumo e dello 0,80 per cento in più sui mutui erogati rispetto alla media europea,ma è censurabile la legge che impone di monitorare quei tassi !Gli effetti perversi e scandalosi, non sono i meccanismi della legge 108/96 che “precluderebbe l’accesso al credito alla clientela marginale spingendola nelle mani degli strozzini”, ma le difese d’ufficio delle banche da parte di una Banca d’Italia, che pur avrebbe il dovere di garantire il rispetto della legalità ed è invece schierata, peggio ancora che nella gestione Fazio, a favore dell’operato di un sistema bancario caro, inefficiente, vessatorio ed arrogante. Sarebbe tragico per un governo di centro-sinistra assecondare, ancora una volta, i desiderata delle banche e di una Banca d’Italia, che dovrebbe essere imputata quanto meno per il reato di favoreggiamento continuato ed aggravato a favore delle banche e contro gli interessi generali dei consumatori e del Paese.
Elio Lannutti (Presidente Adusbef)Roma, 28-3-2007

mercoledì 29 agosto 2007

IL TAR DEL VENETO BOCCIA I PACS



TAR VENETO, SEZ. I - sentenza 27 agosto 2007 n. 2786 - Pres. Amoroso, Est. Rocco - Artini (in proprio e Avv. Cacciavillani) c. Comune di Padova (Avv.ti De Simoni, Montobbio, Tizzoni, Lotto, Bernardi, Bicocche e Munari) e Bonomo (n.c.) - (accoglie nei limiti di cui in motivazione ed annulla i soli modelli allegati al provvedimento adottato dal Sindaco di Padova, ordinandone la correzione secondo quanto disposto della sentenza stessa).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, prima sezione, con l’intervento dei signori:
Bruno Amoroso Presidente
Italo Franco Consigliere
Fulvio Rocco Consigliere, estensore
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso R.G. 257/2007, proposto dall’Avv. Artini Giovanni, rappresentato e difeso in proprio, nonché dall’Avv. Ivone Cacciavillani, con elezione di domicilio in Venezia presso la Segreteria della Sezione, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 35 del T.U. approvato con R.D. 26 giugno 1924 n. 1054,
contro
il Comune di Padova, in persona del Sindaco pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Carlo De Simoni, dall’Avv. Alessandra Montobbio, dall’Avv. Vincenzo Tizzoni, dall’Avv. Marina Lotto, dall’Avv. Paolo Bernardi, dall’Avv. Alberto Bicocche e dall’Avv. Paolo Munari, tutti dell’Avvocatura Civica, con elezione di domicilio in Venezia presso la Segreteria della Sezione, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 35 del T.U. approvato con R.D. 26 giugno 1924 n. 1054,
e nei confronti di
Bonomo Stefano, non costituitosi in giudizio,
per l’annullamento
della deliberazione del Consiglio Comunale di Padova n. 108 dd. 4 dicembre 2006, avente per oggetto: "mozione a sostegno del riconoscimento di diritti alle persone che vivono in convivenze non matrimoniali", per quanto possa ad essa riconoscersi un contenuto provvedimentale; del provvedimento del Sindaco di Padova Prot. n. 30125 dd. 1 febbraio 2007 laddove - tra l’altro - si dispone che gli Ufficiali dell’anagrafe provvedano al rilascio, sui presupposti ivi elencati, della "attestazione di iscrizione nell’anagrafe della popolazione quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi"; degli allegati di tale provvedimento, rappresentati dai moduli annessi e – segnatamente – dal passo di quello predisposto per la dichiarazione dei richiedenti nella parte in cui legittima a chiedere e ad ottenere l’attestazione anzidetta le persone "residenti o richiedenti la residenza a Padova".
Visto il ricorso con i relativi allegati, notificato il 9 febbraio 2007 e depositato il 10 febbraio 2007;
visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Padova;
viste le memorie prodotte dalle parti;
visti gli atti tutti di causa;
uditi nella pubblica udienza del 5 luglio 2007 (relatore il consigliere Fulvio Rocco) l’Avv. I. Cacciavillani per il ricorrente e l’Avv. A. Montobbio per il Comune di Padova;
ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO E DIRITTO
1.1. Il Consiglio Comunale di Padova, previa illustrazione di una relazione da parte del Consigliere Alessandro Zan, ha approvato la deliberazione n. 108 dd. 4 dicembre 2006 (presenti 36 consiglieri su 40, favorevoli 26, contrari 7, astenuti 1, non votanti 2), del seguente tenore:"Premesso che: I. Compito di questa amministrazione e del governo è di fare una politica coerente ed organica per la famiglia così come definita dall’art. 29 della Costituzione: "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio"; II. Compito di questa amministrazione e del governo è di garantire alle persone i diritti civili e sociali (come sancito dall’articolo 2 e 3 della Costituzione), senza discriminare coloro che affidano i propri progetti di vita a forme diverse di convivenza, siano esse tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso; III. Il riconoscimento di tali diritti non intende modificare o alterare il riconoscimento e l’importanza della famiglia fondata sul matrimonio. Tenuto conto che la L. 24 dicembre 1954 n. 1228, "Ordinamento anagrafico della popolazione residente", all’art. 1 prevede che l’anagrafe della popolazione residente deve essere tenuta registrando "le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie e alle convivenze"; che il D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223, Regolamento d’esecuzione della predetta legge, all’art. 1 specifica che "l’anagrafe è costituita da schede individuali, di famiglia e di convivenza". Evidenziato che l’art. 4 dello stesso Regolamento d’esecuzione,rubricato "Famiglia anagrafica", riconosce che "agli effetti anagrafici, per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozioni, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune". Visto che l’art. 33 dello stesso Comune stabilisce che l’ufficiale di anagrafe deve rilasciare certificati anagrafici relativi allo stato di famiglia e che ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici "può essere attestata o certificata, qualora non vi ostino gravi o particolari esigenze di pubblico interesse, dall’ufficiale di anagrafe d’ordine del Sindaco", impegna il Sindaco e la Giunta Comunale: A) ad istruire l’Ufficio anagrafe, affinché rilasci alle famiglie anagrafiche che ne facciano richiesta, ai sensi dell’art. 33, comma 2, del D.P.R. 30 maggio 1989 (n. 223) l’ "Attestazione di famiglia anagrafica basata su vincoli di matrimonio o parentela o affinità o adozioni o tutela o vincoli affettivi" (come riconosce l’art. 4 dello stesso Regolamento d’esecuzione), quale pubblica attestazione delle risultanze delle schede di famiglia tenute ai sensi dell’art. 21 D.P.R. 30 maggio 1989; B) a predisporre la relativa modulistica; c) a sollecitare il Parlamento, attraverso i Presidenti di Camera e Senato, affinché affronti il tema del riconoscimento giuridico di diritti, doveri, e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto".
1.2. In esecuzione a tale deliberazione, il Sindaco di Padova ha quindi emanato il provvedimento Prot. n. 30125 dd. 1 febbraio 2007 il Sindaco di Padova, del seguente tenore "Il Sindaco, vista la L. 24 dicembre 1954 n. 1228 e gli articoli 4 e 21 del Regolamento anagrafico approvato con D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223; vista la "mozione a sostegno del riconoscimento di diritti alle persone che vivono in convivenze non matrimoniali", approvata dal Consiglio Comunale in data 4 dicembre 2006, dispone che gli Uffici delegati all’anagrafe seguano le seguenti indicazioni: 1. All’atto della richiesta di costituzione di famiglia anagrafica, gli ufficiali d’anagrafe incaricati dovranno raccogliere formalmente, oltre alla indicazione dell’intestatario, anche le ragioni per le quali la richiesta stessa è formulata, in attuazione dell’art. 4 del citato Regolamento. 2. Nel caso di coabitazione per "vincoli affettivi", la richiesta di costituzione di famiglia anagrafica dovrà essere sottoscritta da ambedue gli interessati alla presenza dell’ufficiale d’anagrafe incaricato. 3. I componenti della famiglia anagrafica, anche separatamente, possono richiedere all’ufficiale d’anagrafe il rilascio di una attestazione che riporta quanto da loro dichiarato secondo il modulo predisposto: 4. In presenza di domanda di cui al precedente articolo, l’ufficiale d’anagrafe, una volta verificata: la dichiarazione sottoscritta dagli interessati, di cui al precedente punto 1) (e) l’esistenza dello stato di coabitazione degli interessati stessi, sulla base della documentazione dell’ufficio, emette l’ "attestazione di iscrizione nell’anagrafe della popolazione quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi", secondo il modulo predisposto allo scopo. 5. Nel caso in cui la richiesta di cui al precedente punto 3) sia presentata da persone che già costituiscono una famiglia anagrafica, ma per le quali non esiste la dichiarazione formalmente sottoscritta di cui al precedente punto 1), l’ufficiale di anagrafe incaricato farà sottoscrivere agli interessati la conferma di coabitazione per vincoli affettivi, contestualmente alla richiesta di attestazione, in modo da poter procedere come disposto al punto 4".
Al provvedimento testè riportato risultano allegati i seguenti fac-simile di moduli.
1) Un modello "A", da indirizzarsi "All’Ufficio Anagrafe del Comune di Padova" e recante il testo qui appresso specificato: "Oggetto: costituzione di nuova famiglia anagrafica. Ai sensi dell’art. 21 comma 2 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223, i sottoscritti: Cognome e Nome …nato/a il …; Cognome e Nome … nato/a il …Residenti o richiedenti la residenza a Padova in Via …perché legati da vincoli di:
□ Matrimonio
□ Parentela
□ Affinità
□ Adozione
□ Tutela
□ Affetto
dichiarano di costituire una nuova famiglia anagrafica; chiedono che l’intestatario sia …"
In calce risultano appositi spazi per l’apposizione della data, delle sottoscrizioni dei dichiaranti e della sottoscrizione dell’ "Ufficiale d’Anagrafe ricevente"; inoltre, risultano ivi riportate sotto l’intestazione "D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223" le seguenti disposizioni: "Art. 4 "famiglia anagrafica": 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune".
"Art. 21, comma 2: La scheda di famiglia deve essere intestata alla persona indicata all'atto della dichiarazione di costituzione della famiglia. Il cambiamento dell'intestatario avviene solo nei casi di decesso o di trasferimento".
"La prova dei vincoli affettivi di cui alla definizione di famiglia anagrafica ai sensi dell’art. 4 è riconosciuta alla dichiarazione che gli interessati rendono al momento della costituzione o subentro nella famiglia".
"La dichiarazione non può essere soggetta a continui ripensamenti, e i vincoli sono da ritenersi cessati soltanto con il cessare della coabitazione" .
Va precisato che la sottolineatura dianzi riportata è contenuta nel modulo testè descritto.
2) Un modello A/1, da indirizzarsi parimenti "All’Ufficio Anagrafe del Comune di Padova" e recante, a sua volta, il testo qui appresso specificato: "Oggetto: mutamenti avvenuti nella composizione della famiglia anagrafica. Ai sensi degli artt. 6 e 13 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223, il sottoscritto Cognome e Nome … … quale intestatario della famiglia anagrafica dichiara che sono entrate a far parte della sua famiglia le seguenti persone …………"; segue, quindi, lo spazio previsto per la firma (presumibilmente del dichiarante), sotto il quale il testo quindi prosegue nel seguente modo: "con le quali è legato da vincoli di:
□ Matrimonio
□ Parentela
□ Affinità
□ Adozione
□ Tutela
□ Affetto ".
Segue, ancora, la seguente indicazione: "D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223. Art. 4 "famiglia anagrafica": 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune".
Omissis .
"La prova dei vincoli affettivi di cui alla definizione di famiglia anagrafica ai sensi dell’art. 4 è riconosciuta alla dichiarazione che gli interessati rendono al momento della costituzione o subentro nella famiglia".
"La dichiarazione non può essere soggetta a continui ripensamenti, e i vincoli sono da ritenersi cessati soltanto con il cessare della coabitazione" .
Va anche in questo caso precisato che la sottolineatura dianzi riportata è contenuta nel modulo testè descritto.
Seguono, quindi, ulteriori spazi riservati alla data, alle firme (presumibilmente dei componenti della famiglia anagrafica) e alla sottoscrizione dell’"Ufficiale d’Anagrafe ricevente".
3) Un modello B/1, sempre da indirizzarsi "All’Ufficio Anagrafe del Comune di Padova" e recante il testo qui appresso specificato: "Oggetto: richiesta di attestazione di iscrizione nell’anagrafe della popolazione quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi. I sottoscritti: Cognome e Nome …nato/a il …; Cognome e Nome … nato/a il …chiedono il rilascio dell’attestato sopra indicato ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223 "Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente", e allo scopo dichiarano che esistono tuttora i vincoli affettivi con la persona coabitante nell’unità immobiliare sita in Padova, Via …n. …".
Seguono, quindi, le seguenti diciture: "D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223. Art. 4 "famiglia anagrafica": 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune".
Omissis .
"La prova dei vincoli affettivi di cui alla definizione di famiglia anagrafica ai sensi dell’art. 4 è riconosciuta alla dichiarazione che gli interessati rendono al momento della costituzione o subentro nella famiglia".
"La dichiarazione non può essere soggetta a continui ripensamenti, e i vincoli sono da ritenersi cessati soltanto con il cessare della coabitazione" .
Va anche in questo caso precisato che la sottolineatura dianzi riportata è contenuta nel modulo testè descritto.
Seguono, altresì, ulteriori spazi riservati alle firme e all’indicazione degli estremi dei documenti dei due richiedenti, nonché all’apposizione della data.
4) Un’ "Attestazione di iscrizione nell’anagrafe della popolazione quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi", da rilasciarsi su carta intestata "Comune di Padova" e recante lo stemma del Comune medesimo; l’attestazione medesima è del seguente tenore: "Il Sindaco, vista la richiesta di attestazione presentata dai Signori …; visto il D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223 "Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente"; visti gli atti d’ufficio, attesta che le persone sopra indicate sono iscritte nell’Anagrafe della Popolazione di questo Comune dal … quale famiglia anagrafica per coabitazione in Via … n. … in ragione dell’esistenza di vincoli affettivi dichiarati dai medesimi".
Segue lo spazio per l’apposizione della firma "d’ordine del Sindaco" da parte dell’ "Ufficiale d’Anagrafe".
2.1. Tutto ciò premesso, con il ricorso in epigrafe l’Avv. Giovanni Artini, residente nel Comune di Padova e ivi conseguentemente inscritto nelle relative liste elettorali (cfr. autodichiarazioni rispettivamente rese da medesimo ricorrente a’ sensi dell’art. 46, lett. b e dell’art. 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445: cfr. doc.1 di parte ricorrente depositato il 10 febbraio 2007) chiede l’annullamento:
della deliberazione del Consiglio Comunale di Padova n. 108 dd. 4 dicembre 2006, avente per oggetto: "mozione a sostegno del riconoscimento di diritti alle persone che vivono in convivenze non matrimoniali", precisando peraltro che ciò è comunque chiesto per quanto possa riconoscersi alla stessa un contenuto provvedimentale;
del provvedimento del Sindaco di Padova Prot. n. 30125 dd. 1 febbraio 2007 laddove - tra l’altro - si dispone che gli Ufficiali dell’anagrafe provvedano al rilascio, sui presupposti ivi elencati, della "attestazione di iscrizione nell’anagrafe della popolazione quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi";
degli allegati di tale provvedimento, rappresentati dai moduli annessi e – segnatamente – dal passo di quello predisposto per la dichiarazione dei richiedenti nella parte in cui legittima a chiedere e ad ottenere l’attestazione anzidetta le persone "residenti o richiedenti la residenza a Padova".
Il ricorrente afferma che mediante i provvedimenti impugnati l’Amministrazione Comunale perseguirebbe l’intento di istituire schede di famiglia, disciplinate dall’art. 21 del .P.R. 223 del 1989 e che il Comune medesimo intenderebbe, peraltro, formare non attenendosi al modello appositamente predisposto dall’Istituto Centrale di Statistica.
Il ricorrente afferma pure che "all’iniziativa comunale è sottesa una forte carica ideologica che, nell’attuale momento politico … vorrebbe essere antesignana e apripista" (cfr. pag. 2 dell’atto introduttivo del presente giudizio).
L’Artini evidenzia, quindi, che la funzione della tenuta delle anagrafi della popolazione è riservata allo Stato dalla L. 24 dicembre 1954 n. 1228, che tale scelta del legislatore ordinario trova espresso fondamento nell’art. 117, comma 2, lett. i) Cost. come sostituito dall’art. 3 della L. Cost. 18 ottobre 2001 n. 3 (il quale – per l’appunto – attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato medesimo la materia della "cittadinanza, stato civile e anagrafi") e che nell’esercizio della funzione della tenuta delle anagrafi il Sindaco agisce, a’ sensi dell’art. 54, comma 1, lett. a) del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267 come ufficiale di governo, privo di qualsivoglia potestà dispositiva ovvero modificativa delle direttive statali.
Il ricorrente rileva, quindi, che a’ sensi dell’art. 1 della L. 1228 del 1954, in "ogni Comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente", nella quale devono essere "registrate le posizioni relative alle singole persone, alla famiglia e convivenze che hanno fissato nel Comune la residenza", e che a’ sensi dell’art. 43 c.c. quest’ultima si identifica con il "luogo in cui la persona ha la dimora abituale".
Il ricorrente rimarca, altresì, la fondamentale rilevanza assunta dal requisito della residenza anagrafica nell’attuale statuto civile del1’ordinamento proprio delle persone fisiche, posto che alla residenza vanno notificati sia gli atti giudiziari, a’ sensi dell’art. 139 c.p.c, sia gli atti recettizi in genere, e che dalla residenza medesima discendono sia la dimensione del Comune, sia le assegnazioni della finanza partecipata, sia l’individuazione del domicilio di soccorso.
Il ricorrente afferma che il Sindaco, nel dare attuazione alla predetta deliberazione consiliare n. 108 del 2006, avrebbe esteso la legittimazione ad ottenere il certificato anagrafico non soltanto ai residenti (non potendo comunque far ciò, per quanto si dirà appresso), ma anche ai "richiedenti la residenza" e senza disporre alcuna verifica al fine di accertare se alla dichiarazione risponda alcuna dimora abituale, con la conseguenza - sempre secondo la tesi dell’Artini - che nel registro anagrafico potrebbero registrarsi ed ottenere il relativo certificato le coppie di fatto sia omo- che eterosessuali pur di fatto abitando altrove.
Il ricorrente, al dichiarato fine di comprovare la propria legittimazione a proporre l’impugnativa in epigrafe, afferma e comprova di essere elettore del Comune di Padova anche agli affetti della proposizione dell’azione popolare a’ sensi dell’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 267 del 2000, a suo dire esperibile nella presente sede di giudizio quale azione del Comune-comunità, così come definito dall’art. 3, comma 2, del medesimo T.U. 267 del 2000, contro il Comune-organo, il quale ultimo nella specie deborderebbe con il proprio operato dalla legalità.
Il ricorrente reputa che l’azione da lui proposta si configuri, comunque, quale esercizio di quel dovere inderogabile di solidarietà politica, sociale ed economica, imposto dall’art. 2 Cost.: e ciò in quanto la Costituzione, laddove impone al cittadino un dovere inderogabile, "gli impone di verificare se possa essere utile alla Patria; e nel caso lo ravvisi, gli impone il dovere inderogabile di esserlo; di attivarsi per esserlo. La precisazione diventa rilevante per qualificare anche come europeo il contenuto dell'azione qui esercitata, con la possibilità della sua difesa in sede europea. Si confida che sia colto lo spirito esclusivamente "resistenziale" che ispira la presente azione: essa mira alla difesa dei valori di libertà e di civiltà dell' ordinamento che spinsero i nostri Padri alla prima Resistenza, a rischiare in proprio in difesa dei stessi valori di civiltà, che nel caso paiono al ricorrente gravemente attentati. Il ricorrente intende specificamente qualificare come esercizio del diritto europeo d'azione la presente iniziativa, con una ben precisa funzione e finalità. Secondo l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo, " toute le personne a droit à que sa cause soit entendue par un juge". Questa è una precisa cause d’un cittadino di questo sventurato Paese, che ha la ventura di essere anche cittadino europeo e che in questa sede intende esercitare il suo diritto europeo di azione. Ha diritto "à que sa cause sait entendue"; questo preciso diritto viene qui esercitato. Ben si sa che l'adito della Corte di Giustizia europea è possibile solo quando siano stati esperiti tutti i gradi della giustizia interna dello Stato contraente. Potrebbe anche darsi -lo si prospetta per mero scrupolo di completezza espositiva- che venga ritenuto inammissibile il presente ricorso; la relativa pronunzia verrebbe ovviamente impugnata al Consiglio di Stato, la cui eventuale pronuncia conforme aprirebbe l’adito alla Corte Europea, che giudicherebbe la cause del cittadino europeo. Fermo e ribadito il valore resistenziale della presente azione, comune del resto ad ogni azione popolare, a cominciare da quella prevista dalla L. 17 luglio 1890 n. 6972" (cfr. pagg. 5 e 6 dell’atto introduttivo del presente giudizio).
Sempre ad avviso del ricorrente, gli atti qui resi oggetto d’impugnativa sarebbero assolutamente nulli per difetto assoluto di attribuzione, ai sensi dell'art. 21 septies della L. 7 agosto 1990 n. 241, posto che il Comune, in nessuno dei suoi organi (Consiglio o Sindaco), sarebbe titolare di alcuna funzione - legittimazione - competenza di statuire comunque in tema di tenuta delle anagrafi della popolazione, trattandosi – come si è visto innanzi - funzione esclusivamente statale.
In via subordinata, il ricorrente chiede comunque l’annullamento degli atti in questione, posto che essi in ogni caso violerebbero "le leggi statali indicate sotto i profili sopra illustrati" (cfr. ibidem, pag. 6).
2.2. Si è costituito in giudizio il Comune di Padova, eccependo innanzitutto l’inammissibilità del ricorso.
Secondo la difesa dell’Amministrazione intimata, infatti, per quanto attiene all’asserito esercizio nella presente causa da parte dell’Artini dell’azione popolare di cui all’art. 9 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000, andrebbe considerato che tale articolo di legge dispone nel senso che ciascun elettore possa far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al Comune o a alla Provincia e che, peraltro, la giurisprudenza unanimemente riconosce all’azione popolare medesima natura sostitutiva o suppletiva, ossia preordinata alla tutela degli interessi che l’Ente locale abbia omesso di curare mediante la proposizione delle azioni e dei ricorsi che gli competevano (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 7 febbraio 2004 n. 1969; T.A.R. Lazio, Sez. II ter, 5 gennaio 2006 n. 100, nonché le sentenze n. 1728 dd. 27 settembre 2004 e n. 3749 dd. 8 novembre 2006 rispettivamente rese dalla Sezione III di questo stesso T.A.R. e da questa stessa Sezione), con la conseguenza che rimane esclusa la proponibilità innanzi a questo giudice di azioni popolari di tipo c.d. "correttivo", ossia finalizzate (come, per l’appunto, nel caso di specie) a censurare atti o comportamenti riferibili ad una volontà direttamente espressa dall’Ente locale.
Per quanto attiene, invece, all’asserito "contenuto europeo" dell’azione proposta dall’Artini, la difesa del Comune rimarca che secondo il nostro ordinamento tutti possono agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e interessi in presenza di un interesse ad agire personale, attuale e diretto che nel caso di specie, peraltro, mancherebbe in quanto dai provvedimenti impugnati non discenderebbero lesioni di sorta per la posizione giuridica del ricorrente medesimo: e ciò anche per quanto segnatamente attiene all’azione in sede di giurisdizione europea asseritamente da lui proponibile, stante il fatto che – come dichiarato dallo stesso Artini – ai fini dell’esercizio del diritto di rango europeo nella specie invocato sarebbe sufficiente l’esaurimento dei gradi di giudizio interni all’ordinamento nazionale.
Secondo la difesa del Comune, il ricorso sarebbe inammissibile anche perchè privo - al di là della generica affermazione della nullità degli atti impugnati per asserita incompetenza assoluta a provvedere da parte dell’Amministrazione Comunale - di qualsivoglia illustrazione di specifiche censure di legittimità al riguardo.
A sua volta, la medesima difesa del Comune rimarca che l’art. 1 della L. 1228 del 1954 dispone che l’anagrafe della popolazione residente deve essere tenuta registrando le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie e alle convivenze, che l’art. 1 del D.P.R. 223 del 1989 afferma che l’anagrafe è costituita da schede individuali, di famiglia e di convivenza, che a’ sensi dell’art. 4 del medesimo D.P.R. specifica che "gli effetti anagrafici per famiglia s’intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozioni, tutela o da vincoli affettivi,coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune" e che l’art. 33 dello stesso disciplina il rilascio dei certificati concernenti la residenza e lo stato di famiglia disponendo che ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici, ad eccezione delle posizioni previste dall’art. 35 del D.P.R. medesimo, può essere attestata o certificata dall’Ufficiale d'anagrafe d'ordine del Sindaco.
Ciò posto, secondo la tesi della difesa del Comune, mediante gli atti qui impugnati l’Amministrazione Comunale avrebbe soltanto dato disposizione ai propri Uffici anagrafici in ordine alle modalità per il rilascio dell'attestazione di famiglia anagrafica basata su vincoli di matrimonio o parentela o affinità o adozioni o tutela o vincoli affettivi.
La stessa difesa del Comune rimarca, quindi, che le disposizioni normative attinenti alle certificazioni ed alle attestazioni anagrafiche erano e rimangono quelle previste dagli artt. 33 e 35 del D.P.R. 223 del 1989, e che dalle disposizioni medesime si evincerebbe agevolmente la tipicità delle "certificazioni" anagrafiche, limitate - in quanto tali - alla residenza ed allo stato di famiglia (cfr. art. 33, comma 1, del D.P.R. 223 del 1989 e alle quali – per l’appunto - si affiancano le altre attestazioni e gli altri certificati indicati al comma 2 dello stesso art. 33, il quale in tal senso dispone che, oltre alla residenza ed allo stato di famiglia, "ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici, ad eccezione di quelle previste dal comma 2 dell’art. 35 ... può essere attestata o certificata dall’Ufficiale d’anagrafe d'ordine del sindaco".
Ciò, dunque, significa – sempre secondo la tesi della difesa del Comune – che tutte le posizioni anagrafiche desumibili dagli atti in possesso dell’Amministrazione Comunale e la cui attestazione o certificazione non è espressamente inibita dalla legge, possono essere attestate o certificate dall’Ufficiale d’anagrafe, d’ordine del Sindaco; e, che se è così, nella specie il Sindaco di Padova avrebbe semplicemente disposto, nel pieno rispetto della normativa testè esaminata, che possono essere rilasciate su richiesta degli interessati le attestazioni di iscrizione all’anagrafe della popolazione quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi, posto che – come si è detto – a’ sensi dell’art. 4 del D.P.R. 223 del 1989 "agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora nello stesso Comune".
Da tale constatazione discenderebbe – sempre secondo la difesa del Comune – che nella specie non sarebbero state introdotte innovazioni di sorta in contrasto con le disposizioni statali vigenti in materia, ivi compresa la modulistica obbligatoriamente utilizzata per l'iscrizione all’anagrafe come famiglia anagrafica; ed, in particolare, risulterebbe del tutto erroneo quanto affermato nell’atto introduttivo del presente giudizio circa la possibilità di estendere il rilascio delle attestazioni anagrafiche ai non residenti, posto che l’attestazione anagrafica di cui trattasi sarebbe rilasciata esclusivamente alle persone residenti nel Comune di Padova, che coloro che chiedono la costituzione di una nuova famiglia anagrafica devono dichiarare di essere residenti nel Comune di Padova ovvero devono chiedere di stabilire la loro residenza in tale Comune, che in tale evenienza si avvia comunque la fase di controllo da parte della Polizia Municipale ai fini della verifica dell’effettivo trasferimento della residenza medesima nel Comune di Padova e che soltanto dopo l’esito positivo di tali controlli e la conseguente iscrizione all’anagrafe patavina potrà essere rilasciata agli interessati l’attestazione di quanto dichiarato all'atto della presentazione della richiesta.
Per quanto segnatamente attiene ai modelli predisposti per le operazioni sopradescritte, la difesa del Comune precisa che il modello A è utilizzato per la costituzione di famiglia anagrafica nelle pratiche sia di iscrizione anagrafica che di cambio di abitazione, e che per il suo tramite gli interessati dichiarano a’ sensi dell'art. 4 del D.P.R. 223 del 1989 i loro legami; che il modello A/1 è utilizzato per la dichiarazione dei mutamenti della famiglia anagrafica, e che per il suo tramite gli interessati dichiarano, sempre a’ sensi dell’art. 4 del D.P.R. 223 del 1989, i propri legami; che il modello B è utilizzato per la richiesta di attestazione di iscrizione all’anagrafe della popolazione quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi; e che, da ultimo, il modello B/2 è utilizzato per l’attestazione dell’iscrizione all’anagrafe quale famiglia anagrafica costituita da persone coabitanti legate da vincoli affettivi.
Secondo la difesa del Comune, dall’esame della modulistica sopradescritta, si evincerebbe con inconfutabile chiarezza che non verrebbe effettuata alcuna iscrizione o annotazione in contrasto con la normativa statale, ma che - anzi – le dichiarazioni rilasciate dagli interessati relative all'indicazione dei vincoli in base ai quali viene richiesta la costituzione della famiglia e le conseguenti attestazioni rilasciate dall’Amministrazione Comunale sarebbero quelle espressamente ed indefettibilmente previste dalla disciplina vigente di fonte statuale contenuta nei predetti artt. 4 e 33 del D.P.R. 223 del 1989.
3. Non si è costituito in giudizio il pur intimato Sig. Stefano Bonomo.
4. Con ordinanza istruttoria n. 20 dd. 28 febbraio 2007 la Sezione ha disposto l’acquisizione, agli atti di causa, di una fotocopia del modello di scheda anagrafica di cui all’art. 20, comma 1, del D.P.R. 223 del 1989.
5. In data 27 marzo 2007 l’Amministrazione Comunale ha adempiuto a tale incombente.
6. Le parti, con ulteriori e puntuali memorie, hanno insistito per l’accoglimento delle rispettive tesi.
7. Alla pubblica udienza del 5 luglio 2007 la causa è stata trattenuta per la decisione.
8.1. Il Collegio deve, innanzitutto, farsi carico di disaminare le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dalla difesa del Comune.
Esse vanno respinte.
8.2. Come si è visto innanzi, secondo la prospettazione della difesa del Comune, il ricorrente avrebbe dichiaratamente proposto, nella specie, un’azione popolare a’ sensi dell’art. 9 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000 pur nell’acclarato difetto dei presupposti richiesti al riguardo, ossia la richiesta, a parte del privato, della tutela in sede giurisdizionale di interessi specifici attribuiti dall’ordinamento all’Ente locale e da quest’ultimo peraltro disattesi omettendo la proposizione delle azioni e dei ricorsi che gli competevano.
In effetti, nel caso di specie non è dato di ravvisare la sussistenza di tale tipo di azione, essenzialmente sostitutiva o suppletiva rispetto all’omissione della cura in sede giudiziale del pubblico interesse da parte dell’Ente: omissione che, per l’appunto, qui non sussiste proprio in quanto l’Amministrazione Comunale, ben lungi dall’astenersi dal provvedere, ha posto in essere, nel dichiarato esercizio di proprie competenze deputate alla cura del pubblico interesse, specifici atti richiamando puntuali disposizioni legislative e regolamentari che conforterebbero la legittimità del proprio operato.
L’Artini, peraltro, ha configurato pure il proprio interesse al ricorso conferendo dichiaratamente allo stesso un "contenuto europeo" genericamente fondato sull’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, successivamente modificata e resa a sua volta esecutiva nell’ordinamento italiano per effetto della L. 4 agosto 1955 n. 848 e successive modifiche.
Tale articolo della Convenzione notoriamente contempla il diritto fondamentale di ogni persona ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, nonché precostituito per legge.
A ragione, sotto questo profilo, la difesa del Comune ha evidenziato che tale diritto non risulta sottratto al ricorrente proprio in quanto l’esaurimento dei gradi di giudizio interni all’ordinamento nazionale ne consente la tutela nella sede giudiziale sovrastatuale contemplata dalla Convenzione medesima (cfr. art. 35 Convenzione cit., come sostituito dal Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l'11 maggio 1994 e ratificato con L. 28 agosto 1997 n. 296).
Non va condiviso - per contro, e per tutto quanto si dirà appresso - l’ulteriore argomento svolto dalla difesa del Comune, secondo il quale, a prescindere dalla stessa pretesa configurazione del ricorso in epigrafe come necessariamente (ed esclusivamente) prodromico all’esaurimento delle vie giudiziali interne prima di adire il giudice sopranazionale, dovrebbe in ogni caso considerarsi che, se è vero che nel nostro ordinamento tutti possono agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e interessi in presenza di un interesse ad agire personale, attuale e diretto (cfr. art. 100 c.p.c.), nel caso di specie tale interesse comunque difetterebbe in capo al medesimo Artini in quanto dagli atti impugnati non discenderebbero lesioni di sorta per la propria posizione giuridica.
8.2. Il Collegio, a tale riguardo, evidenzia che dalla lettura dell’art. 1 della L. 1228 del 1954 come integrato dall'art. 2-quater, del D.L 27 dicembre 2000 n. 392, convertito in L. 28 febbraio 2001 n. 26, nonché dell’art. 1 del D.P.R. 223 del 1989, consta che – per quanto qui segnatamente interessa – l’ordinamento individua tre distinti status soggettivi attraverso i quali le persone sono iscritte nei registri dell’anagrafe della popolazione residente: la singola persona, la famiglia e la convivenza.
In relazione a ciò, la posizione anagrafica di ciascuna persona è dunque archiviata sia individualmente, sia all’interno di una famiglia o di una convivenza, a’ sensi di quanto disposto dagli artt. 4 e 5 del D.P.R. 223 del 1989, i quali – per l’appunto - recano al riguardo la disciplina degli specifici istituti della famiglia anagrafica e della convivenza: ossia, a’ sensi di quanto segnatamente disposto nel volume "Anagrafe della popolazione"della serie "Metodi e norme Serie B n. 29 ed. 1992" accluso alla circolare ISTAT dd. 8 febbraio 1992 inoltrata a ciascun Comune, ad ogni persona fisica residente corrispondono sia una scheda anagrafica individuale (AP/5), sia una scheda di famiglia (AP/6) o di convivenza (AP/6a).
L’art. 5 del D.P.R. 223 del 1989 definisce la "convivenza" quale "insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso Comune", identificando in tal modo determinati aggregati di persone originati da specifici motivi sociali e che presuppongono una struttura organizzativa al cui vertice si colloca un responsabile del funzionamento dell’aggregato medesimo e, conseguentemente, anche delle dichiarazioni anagrafiche inerenti ai relativi membri (cfr. volume Anagrafe cit.).
Viceversa, a’ sensi dell’art. 4 del medesimo D.P.R. 223 del 1989, "agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune".
Tale disposizione risulta innovativa rispetto al previgente art. 2, primo comma, del D.P.R. 31 gennaio 1958 n. 136, recante il precedente regolamento anagrafico, in forza del quale "agli effetti anagrafici per famiglia" si intendeva "un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, affiliazione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune, che normalmente provvedono al soddisfacimento dei loro bisogni mediante la messa in comune di tutto o parte del reddito di lavoro o patrimoniale da esse percepito".
Come ben si vede, quindi, nell’attuale nozione di "famiglia anagrafica" è stato eliminato, quale elemento costitutivo di tale aggregato di persone, il vincolo economico tra i membri coabitanti, in precedenza considerato inderogabilmente necessario.
Pertanto, allo stato attuale, per aversi famiglia anagrafica devono sussistere i seguenti elementi costitutivi:
1) la presenza tra i membri di un vicolo familiare o affettivo;
2) la coabitazione e dimora abituale nella stessa abitazione.
La famiglia anagrafica è nozione ben distinta da quella della famiglia c.d. "nucleare" o "civile", ossia composta da persone unite in matrimonio con effetti civili riconosciuti:, con la conseguenza che la famiglia anagrafica e la famiglia nucleare o civile possono anche non coincidere.
La distinzione concettuale tra famiglia nucleare e famiglia anagrafica è stata puntualmente ribadita da Cons. Stato, Sez. V, 13 luglio 1994 n. 770, laddove ben si evidenzia che mentre la famiglia anagrafica di cui al D.P.R. 223 del 1989 è istituto giuridico esclusivamente finalizzato alla "raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni" relative alle persone che hanno fissato nel Comune la propria residenza (cfr. art. 1 D.P.R. 223 del 1989 cit.), la nozione giuridica di famiglia "nucleare" , ossia componibile da genitori e da figli, risulta presupposta e tutelata nel nostro ordinamento interno dagli artt. 29, 30 e 31 Cost., dagli artt. 144 e 146 c.c. e dall’art. 570 c.p., e - sotto il profilo della necessaria conformazione dell’ordinamento medesimo "alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute" (lo ius gentium richiamato dall’art. 10, primo comma, Cost.) - anche dall’art. 12 della predetta Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dall’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nonché dall’art. 10 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali reso a sua volta esecutivo nell’ordinamento italiano con L. 25 ottobre 1977 n. 881.
La struttura della famiglia "nucleare" risulta - all’evidenza - cristallizzata dal rapporto instaurato per effetto del matrimonio tra i coniugi (cfr. art. 143 e ss.) ed, in particolare, dall’ "obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione" (cfr. art. 143, secondo comma, c.c. come sostituito dall’art. 24 ), dall’obbligo di contribuire , in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, ai bisogni della famiglia (cfr. art. 143, terzo comma, c.c.), dalla necessità di concordare l’indirizzo della vita familiare (cfr. art. 144, primo comma, c.c.) e dall’ "obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole" (cfr. art. 147 c.c.).
Invero, i coniugi (ossia, la famiglia "nucleare") sono vincolati – come si è detto – alla coabitazione (cfr. art. 146 c.c. cit.) ed, in tal senso, "fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa" (cfr. art. 144, primo comma, c.c. cit.).
Tuttavia, in conformità all’attuale formulazione dell’art. 45 c.c. conseguente all’art. 1 della L. 151 del 1975 ("Ciascuno dei coniugi ha il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei propri affari o interessi. Il minore ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia o quello del tutore. Se i genitori sono separati o il loro matrimonio è stato annullato o sciolto o ne sono cessati gli effetti civili o comunque non hanno la stessa residenza, il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive …"), un coniuge, oltre alla possibilità d’avere un domicilio diverso da quello dell’altro, può comunque fissare una residenza diversa da quella della famiglia in caso di separazione di mero fatto (cfr. Cassazione, Sez. I civ., 14 aprile 1982, n. 2223); e, del resto, risulta altrettanto notorio che la coabitazione propria della famiglia nucleare, proprio perché essenzialmente fondata su criteri di fatto, non viene comunque meno per effetto della circostanza che proprio in dipendenza delle anzidette esigenze di "indirizzo della vita familiare" e degli interessi dei suoi singoli membri non confliggenti con quelli della famiglia medesima, i coniugi sovente concordano di acquisire residenze tra di loro diverse, per necessità di carattere professionale, fiscale, ecc.: tale ultima evenienza, quindi, non è di per sé riguardabile quale fatto automaticamente estintivo dei vincoli propri della famiglia nucleare
Per contro, la famiglia anagrafica risulta – di per sé – ben più elastica nella sua costituzione e dissoluzione: essa può essere formata anche da un’unica persona (cfr. art. 4, comma 2, del D.P.R. 223 del 1989) e, soprattutto, essa essenzialmente si fonda, a differenza di quanto precedentemente visto per la "convivenza" di cui all’art. 5 del D.P.R. 223 del 1989, sulla dichiarazione liberamente resa da parte di ciascuno dei suoi membri all’Ufficiale d’anagrafe, a’ sensi dell’art. 13, comma 1, lett. b), del medesimo D.P.R. 223 del 1989.
Le predette avvertenze e note ISTAT del 1992 riconoscono che la famiglia anagrafica costituita da individui legati da meri vincoli affettivi configura un rapporto che, a differenza degli altri legami familiari elencati dall’art. 4 del D.P.R. 223 del 1989 (matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela: ossia vincoli giuridicamente connessi a posizioni derivanti dalla famiglia "nucleare", ovvero costituite per effetto di specifici obblighi assunti ex lege ed, in quanto tali, conseguenti da istituti puntualmente disciplinati dall’ordinamento), non può essere oggettivamente riscontrato dall’Ufficiale d’anagrafe e non può - quindi - che essere rimesso alla dichiarazione resa dall’interessato all’Ufficiale medesimo al momento della costituzione, ovvero del subentro della famiglia anagrafica.
Nelle stesse note ISTAT del 1992 si afferma – altresì – che dopo l’avvenuta dichiarazione dell’esistenza di un vincolo affettivo, lo stesso si reputa venuto meno soltanto per effetto della cessazione della coabitazione, essendo questa l’unico presupposto oggettivamente riscontrabile, e che la dichiarazione medesima "non può essere oggetto di continui ripensamenti".
8.3. Orbene, premesso tutto ciò, va evidenziato che, anche al di là della problematica – all’evidenza estranea all’economia del presente giudizio – relativa al corretto esercizio della discrezionalità legislativa statale e regionale in ordine all’eventuale equiparazione tra famiglia nucleare e famiglia anagrafica (per lo più, diffusamente definita da tali ulteriori fonti normative come "convivenza", ossia con terminologie difforme rispetto alle anzidette nozioni di cui agli artt. 4 e 5 del D.P.R. 223 del 1989) al fine del riconoscimento di determinati benefici economici (ad es., l’art. 2, comma 4, della L.R. 2 aprile 1996 n. 10, che nel Veneto consente l’accesso ai benefici di edilizia residenziale pubblica anche alle unioni more uxorio), risulta ben evidente la sussistenza in capo all’attuale ricorrente di un interesse, anche soltanto morale (cfr. ex multis, sull’ormai assodata sufficienza di tale interesse al fine di fondare una posizione legittimante nel processo amministrativo, Cons. Stato, Sez. IV, 30 luglio 2002 n. 4076), al corretto svolgersi dell’azione amministrativa in materia anagrafica, affinché i ben diversi istituti della famiglia nucleare (tutelato, come si è visto, in via espressa da disposizioni di rango costituzionale e superstatale) e della famiglia anagrafica (presupposto, viceversa, da una mera legge ordinaria e disciplinato nel dettaglio da un regolamento e da un atto amministrativo a contenuto generale, costituito dalle anzidette note ISTAT del 1992) non siano confusi, anche – e soprattutto – dinanzi alla complessiva percezione dei consociati.
Detto altrimenti, l’interesse del ricorrente si identifica nell’esigenza che la famiglia anagrafica, non importa se a connotazione etero od omosessuale, non deve tramutarsi da istituto essenzialmente strumentale alla raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative alle persone che hanno fissato nel Comune la propria residenza (cfr. art. 1 D.P.R. 223 del 1989 cit.) a modello di organizzazione sociale equipollente alla famiglia fondata sul matrimonio.
Va soggiunto, a questo specifico riguardo, che la disciplina della famiglia nucleare si è per certo evoluta nei tempi e risulta, in ogni caso, a tutt’oggi differente nei diversi ordinamenti giuridici in dipendenza delle altrettanto notoriamente diverse sensibilità economico-sociali e religiose: ma rimane ferma la perdurante rilevanza, preminenza e indispensabilità per lo stesso futuro svolgersi di ogni società umana – e, quindi, anche a prescindere da eventuali opzioni legislative finalizzate a riconoscere nel contesto dei diritti fondamentali dei singoli determinati effetti pubblicistici e civili ad altre forme di unione tra i sessi - l’assunto che fonda la costituzione di ciò che correntemente e generalmente anche l’attuale ius gentium intende per "famiglia" nel matrimonio, a sua volta a tutt’oggi essenzialmente ed indefettibilmente definibile quale "viri et mulieris coniunctio individuam consuetudinem vitae continens" (J, I, 9 pr.), ovvero quale "coniunctio mari set feminae, et consortium omnis vitae, divini et umani iuris communicatio" (Mod. D 23, 2, I).
Se così è, qualsiasi soggetto che a’ sensi del vigente ordinamento anagrafico risulti inserito in una scheda di famiglia anagrafica materialmente corrispondente ad una famiglia nucleare, viene dunque a collocarsi in una posizione differenziata rispetto all’azione amministrativa da lui reputata difforme dai valori di principio testè enunciati, e nei suoi confronti va conseguentemente riconosciuta la sussistenza di un interesse oppositivo a qualsivoglia ipotesi di omologazione, ancorché meramente documentale, tra la famiglia nucleare e quella meramente anagrafica fondata sulla mera dichiarazione della sussistenza di vincoli affettivi comunque diversi dal matrimonio, dalla parentela, o dall’affinità, nonché dai vincoli discendenti dall’adozione e dalla tutela.
8.4. Né risulta fondato l’assunto del Comune secondo il quale il ricorso proposto dall’Artini risulterebbe inammissibile in quanto intrinsecamente privo di specifiche censure di legittimità.
Dalla lettura dell’atto introduttivo del giudizio è, infatti, agevole individuare non soltanto l’avvenuta formulazione di una censura di nullità o inesistenza degli atti impugnati per asserita incompetenza assoluta dell’Amministrazione Comunale a provvedere al riguardo e di una subordinata censura di incompetenza relativa da parte dell’Amministrazione medesima comportante la richiesta di annullamento degli atti medesimi, ma anche di un’ulteriore censura materialmente riconducibile alla denuncia delle figure sintomatiche di eccesso di potere per illogicità e per sviamento del pubblico fine, con la quale il ricorrente allega l’asseritamente omessa verifica della veridicità della dichiarazione resa dai richiedenti la residenza ai fini dell’ottenimento da parte del Comune di quel che egli chiama "certificato anagrafico" della convivenza, con la supposta conseguenza che mediante la mera richiesta di residenza si possa nella specie ottenere una certificazione della pubblica amministrazione difforme, nei suoi contenuti, al vero e – quindi – non funzionale ai fini di tutela della pubblica fede che la certificazione medesima dovrebbe – per contro – assolvere.
9.1. Tutto ciò premesso, il ricorso va accolto nei limiti di quanto qui appresso specificato.
9.2. La censura di incompetenza assoluta e l’immediatamente subordinata censura di incompetenza relativa non possono trovare accoglimento.
Secondo la prospettazione del ricorrente, la materia anagrafica sfuggirebbe a qualsivoglia disciplina di competenza dell’Amministrazione Comunale, essendo quest’ultima preposta, per il tramite del Sindaco ufficiale del Governo a’ sensi degli artt. 14 e 54 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000, agli incombenti materiali contemplati dalla legislazione disciplinante la materia medesima, di competenza esclusiva statale (cfr. art. 117, secondo comma, lett. i, Cost. come modificato dall’art. 3 della L. Cost. 18 ottobre 2001 n. 3 cit.).
Il Collegio, per parte propria, rileva che ove si condividessero gli assunti del ricorrente, dall’asserita nullità assoluta degli atti impugnati dipendente dalla pretesa assenza di potestà discrezionali nella materia di cui trattasi in capo all’Amministrazione Comunale, conseguirebbe – quale ineludibile corollario - la sussistenza, al riguardo, della giurisdizione del giudice ordinario, posto che l’art. 21-septies della L. 7 agosto 1990 n. 241 come inserito dall'articolo 14, comma 1, della L. 11 febbraio 2005 n. 15 letteralmente devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le sole questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato: questioni, queste ultime, che per certo non ricadono nell’economia del presente giudizio.
Né va sottaciuto che, formulando la medesima tesi, il ricorrente ha comunque obliterato di valutare come - ad ulteriore conforto "sistematico" del corollario medesimo e secondo un’ormai consolidata giurisprudenza - le controversie in ordine alle iscrizioni anagrafiche non rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo, posto che il Sindaco procede al riguardo ad un mero accertamento di posizioni soggettive soltanto in base a presupposti di fatto e senza l’esercizio di alcuna potestà discrezionale, proprio in quanto manca nella specie l’esercizio di una potestà autoritativa (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16 gennaio 1990 n. 14 e Sez. I, 26 gennaio 1979 n. 539; T.A.R. Lombardia, Sez. I, 3 marzo 1985 n.174; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 12 ottobre 2000 n. 766).
La contraria prospettazione secondo la quale le variazioni di residenza costituirebbero, comunque, nella loro oggettività, provvedimenti amministrativi invero implicherebbe, come ineludibile conseguenza, che gli atti stessi dovrebbero essere considerati come atti di accertamento costitutivo, idonei – in quanto tali, e ove non se ne ottenesse l’annullamento - a sovrapporsi inderogabilmente sugli status personali e sui diritti dei loro destinatari: ma risulta, per contro, ormai del tutto assodato in giurisprudenza (cfr., ex multis, Cass. SS. UU. 7 febbraio 1992 n. 1374) che le risultanze anagrafiche non rivestono tale caratteristica, in quanto costituiscono mere presunzioni, suscettibili di prova contraria in ogni momento deducibile innanzi al giudice ordinario mediante azione di accertamento negativo (cfr. sul punto T.AR. Friuli Venezia Giulia n. 766 del 2000 cit.).
Tuttavia, ad avviso di questo Collegio, il caso in esame sfugge a tali pur consolidate impostazioni di principio proprio in quanto l’Amministrazione Comunale ha qui inteso, mediante propri provvedimenti di carattere generale conseguenti ad una valutazione degli indubbi spazi di discrezionalità ad essa lasciati liberi dalla sovrastante disciplina di fonte statuale, impiantare nel proprio ambito territoriale un "sistema" finalizzato ad attestare, integrando con propri modelli la modulistica anagrafica standard predisposta dall’Amministrazione Statale, la sussistenza di una famiglia anagrafica costituita da persone legate da vincoli affettivi, così come del resto liberamente dichiarata dai medesimi interessati all’atto della costituzione, ovvero della variazione della famiglia medesima.
Se è vero, infatti, che l’art. 33, comma 1, del D.P.R. 223 del 1989 dispone che "l’Ufficiale di anagrafe rilascia a chiunque ne faccia richiesta, fatte salve le limitazioni di legge, i certificati concernenti la residenza e lo stato di famiglia", il comma 2 dello stesso articolo dispone – a sua volta – che "ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici, ad eccezione delle posizioni previste dal comma 2 dell'art. 35" – ossia le notizie riportate nelle schede anagrafiche concernenti la professione, arte o mestiere, la condizione non professionale, il titolo di studio e le altre notizie il cui inserimento nelle schede individuali sia stato autorizzato ai sensi dell'art. 20, comma 2, del medesimo D.P.R. 223 del 1989 da parte del Ministero dell'interno, d'intesa con l'Istituto centrale di statistica (ISTAT) – "può essere attestata o certificata, qualora non vi ostino gravi o particolari esigenze di pubblico interesse, dall'ufficiale di anagrafe d’ordine del Sindaco".
Orbene, la stessa circostanza che le note ISTAT del 1992 presuppongano, come si è visto innanzi, la possibilità di rendere la dichiarazione della sussistenza di vincoli affettivi a fondamento della costituzione di una famiglia anagrafica e che addirittura evidenzino l’esigenza di rappresentare agli interessati l’esigenza che la dichiarazione stessa non deve divenire oggetto di frequenti ripensamenti, nonché l’ulteriore circostanza che le medesime note ISTAT sono state evidentemente trasmesse a ciascun Comune con l’assenso del Ministero dell’Interno rende di per sé attestabile (ma, come si vedrà appresso, non certificabile) da parte dell’Amministrazione Comunale l’esistenza dei vincoli in questione.
Allo stesso tempo, l’Amministrazione Comunale di Padova, proprio nell’acclarata circostanza che la surriferita disciplina di fonte statuale non inibisce di attestare la sussistenza dei vincoli affettivi dichiarati dagli interessati al momento della costituzione o della variazione della famiglia anagrafica, ha inteso esercitare, mediante i provvedimenti qui resi oggetto di impugnativa, propri poteri di auto-organizzazione al fine di consentire l’attestazione di quanto dichiarato dagli interessati medesimi: e ciò – rileva sempre questo Collegio - anche nella necessaria applicazione della disciplina di carattere generale contenuta nell’art. 47 del T.U. approvato con D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, a’ sensi della quale – per quanto qui segnatamente interessa – "l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo con la osservanza delle modalità di cui all'articolo 38" del medesimo T.U., ossia sottoscritta "dall’interessato in presenza del dipendente addetto", ovvero sottoscritta e presentata unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore (cfr. art. 38 cit.).
Volendo – dunque - riassumere, l’Amministrazione Comunale di Padova, ha correttamente inteso il senso delle note ISTAT del 1992, ossia che la dichiarazione resa in ordine alla sussistenza di vincoli affettivi quale presupposto per la formazione di una famiglia anagrafica non può essere oggettivamente riscontrata dall’Ufficiale d’anagrafe e non può - quindi - che essere rimessa alla dichiarazione resa dall’interessato all’Ufficiale medesimo al momento della costituzione, ovvero del subentro della famiglia anagrafica: e ciò – come si è parimenti visto innanzi - con il solo limite, affermato dalle stesse note ISTAT, che la dichiarazione di cui trattasi non può essere oggetto di continui ripensamenti da parte di colui che la rende.
Il Comune di Padova ha altrettanto correttamente tratto da tutto ciò la necessitata conseguenza che la sussistenza dei vincoli in questione non può, di per sé, formare oggetto di certificazione anagrafica da parte della Pubblica Amministrazione, a’ sensi dell’art. 33, comma 1, e dell’art. 35 del D.P.R. 223 del 1989, ma può soltanto essere attestata dalla Pubblica Amministrazione, a’ sensi dell’art. 33, comma 2, del medesimo D.P.R. sulla scorta della stessa dichiarazione di colui che l’ha ad essa resa e che l’ha poi confermata al momento della richiesta della relativa attestazione.
L’attestazione di cui trattasi non può, dunque, identificarsi con una certificazione rilasciata dalla Pubblica Amministrazione se non nella sua equipollente validità quale atto pubblico, a’ sensi dell’art. 2699 e ss. c.c.: per essa, infatti, non può porsi un problema di validità temporale, come viceversa risulta per le certificazioni dalla lettura dell’art. 41 del D.P.R. 445 del 2000, proprio in relazione all’intrinseco suo contenuto, essenzialmente rimesso alla volontà degli interessati e, nella sostanza, oggettivamente non accertabile.
Pertanto, colui che intende documentalmente affermare la sussistenza dei vincoli affettivi a prescindere dall’oggettiva permanenza della residenza con altra persona (essa sola, per contro, riscontrabile nella sua oggettiva materialità, a’ sensi dell’art. 4, secondo comma, della L. 1228 del 1954), dovrà di volta in volta chiedere l’attestazione di cui trattasi seguendo la procedura al riguardo prevista dall’Amministrazione Comunale mediante gli atti qui segnatamente impugnati, ovvero di volta in volta auto-dichiararla nelle forme proprie della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, a’ sensi del combinato disposto degli artt. 47 e 38 del T.U. approvato con D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445: e, per quanto detto innanzi, la validità temporale dell’attestazione ovvero dell’auto-dichiarazione si esaurirà, ineludibilmente, nel momento stesso in cui le stesse verranno formate e contestualmente utilizzate.
In ordine a tale impostazione di fondo, correttamente intuita nella sua essenza dall’Amministrazione Comunale di Padova, può allora agevolmente osservarsi, dalla lettura dell’impugnata deliberazione consiliare

SIGNORAGGIO, DEBITO PUBBLICO, BANCHE, PRIVATIZZAZIONI

RISPARMIO TRADITO: BANCHE.......ANCORA LORO!

COMUNICATO STAMPA TRATTO DA “ADUSBEF”

RISPARMIO TRADITO: IL CRACK DEI MUTUI SUB-PRIME USA, DOLOSAMENTE IMPACCHETTATI E MESCOLATI ALLE OBBLIGAZIONI IN ASSENZA DI DOVEROSI CONTROLLI, HA GIA’ PRODOTTO IN ITALIA, PERDITE PER 130 MILIARDI (DIRETTE DI BORSA PER 74 MLD. EURO, INDIRETTE SUI FONDI, COMUNI E PENSIONI, PER 56 MLD). OGNI FAMIGLIA CHE INVESTE SUI MERCATI, HA GIA’ VISTO BRUCIARE TRA 6.500E 8.200 EURO NEGLI ULTIMI 30 GIORNI, ED IL PEGGIO DOVRA’ ANCORA ARRIVARE.
Diversamente da quanto affermano Banca d’Italia ed agenzie di rating interessate, la crisi dei mutui americani, dolosamente impacchettati e mescolati alle obbligazioni in assenza di doverosi controlli delle autorità di vigilanza (Banche Centrali, Autorità di Borsa, FMI) per trasferire i rischi assunti e spalmarli sui mercati, ha già prodotto in Italia perdite pari a 130 miliardi di euro, solo negli ultimi 30 giorni, 74 dei quali ascrivibili alla capitalizzazione di borsa, 56 miliardi alle perdite su obbligazioni (eccetto i titoli di Stato che si sono rivalutati), fondi comuni e fondi pensioni, proprio il miglior viatico per 1,6 milioni di lavoratori, che hanno trasferito a quei fondi il loro TFR. E’ come se ogni famiglia italiana che abbia investito in borsa, nei Fondi Comuni o nei Fondi Pensioni, abbia visto bruciare nel giro di 30 giorni, una somma tra 6.500 ed 8.200 euro del loro sudato risparmio, mentre il peggio dovrà ancora avvenire la prossima settimana, alla riapertura dei mercati, perché non ci può essere immissione di liquidità che tenga da parte di FED, BCE ed altre banche Centrali per rianimare i mercati, a fronte dell’incertezza e di un’operazione verità, sull’entità reale delle vere esposizioni nei sub-prime ed altri prodotti spazzatura, i quali solo negli Stati Uniti, rappresentano tra il 10 ed il 12 per cento del totale dei mutui erogati, per un controvalore di 10.000 miliardi di dollari. I mercati infatti, nonostante iniezioni massicce di liquidità (circa 200 miliardi di euro in due giorni) non sembrano fidarsi delle assicurazioni delle banche centrali, come la Banca d'Italia, che per rassicurare il mercato inietta dosi massicce di tranquillanti, né delle agenzie di rating come Standard e Poor’s tra le massime responsabili del crack, quando afferma che “L'impatto della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti e della conseguente turbolenza dei mercati, avranno un impatto limitato anche sulle altre banche dell'Europa occidentale”, a fronte della seconda Caporetto, dei mercati azionari europei che in soli due giorni ha visto bruciare 468 miliardi di euro di capitalizzazione di borsa, specie il sudato risparmio dei piccoli investitori. Ma Standard & Poor's, secondo la quale sarebbe improbabile che vi possano essere «cambi nella generalmente forte qualità del credito del settore», perché le banche europee, spiegano gli analisti, dovrebbero essere ben posizionate per assorbire l'impatto, giudicando inoltre «salutare» una correzione del mercato, non è la stessa agenzia di rating, che assieme a Fitch e Moody’s hanno emesso rapporti lusinghieri, spesso da tripla “A” su prodotti finanziari confezionati con i mutui sub-prime ad altissimo rischio,che viaggiano alla deriva nei portafogli di banche ed altri investitori ? Le Autorità monetarie e di borsa, se voglio davvero riportare un clima di fiducia, devono cominciare a fare pulizia, monitorando la reale situazione degli strumenti derivati, ma soprattutto, verificando le allegre pagelle da tripla “A” date dalle agenzie di rating a prodotti spazzatura, poi frettolosamente declassati, sanzionando comportamenti spesso truffaldini ed in conflitto di interesse con le stesse banche, alle quali le tre sorelle americane monopoliste del rating, quali Moody’s, Fitch, Standard & e Poor’s sono legate agli istituti di credito che piazzano prodotti bidone e giudicano ottimi, con rapporti incestuosi.
Elio Lannutti (Adusbef) Roma,11.7.2007

domenica 26 agosto 2007

Riccardo Iacona - W l'Italia - Tribunali!

Questo video vi darà la misura della nostra condizione di apprendisti stregoni della giustizia, che col loro sforzo quotidiano cercano di far valere i diritti dei cittadini nei tribunali italiani! Partecipate al nostro sondaggio esprimendo il vostro voto nella sezione accanto.

Differenza tra separazione e divorzio.


Con la separazione legale i coniugi non pongono fine al rapporto matrimoniale, ma ne sospendono gli effetti nell'attesa o di una riconciliazione o di un provvedimento di divorzio. La separazione può essere legale (
consensuale o giudiziale) o semplicemente "di fatto", cioè conseguente all'allontanamento di uno dei coniugi per volontà unilaterale, o per accordo, ma senza l'intervento di un Giudice. La separazione legale (consensuale o giudiziale) rappresenta una delle condizioni (la più frequente) per poter addivenire al divorzio.
Con il divorzio (introdotto e disciplinato con la legge 1.12.1970 n. 898) viene invece pronunciato lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se è stato celebrato matrimonio concordatario con rito religioso, cattolico o di altra religione riconosciuta dalla Stato italiano). Col divorzio vengono a cessare definitivamente gli effetti del matrimonio, sia sul piano personale (uso del cognome del marito, presunzione di concepimento, etc.), sia sul piano patrimoniale. La cessazione del matrimonio produce effetti dal momento della sentenza di divorzio, senza che essa determini il venir meno dei rapporti stabiliti in costanza del vincolo matrimoniale. Solo a seguito di divorzio il coniuge può pervenire a nuove nozze.

sabato 25 agosto 2007

DALLA VOSTRA PARTE.....SEMPRE!

Cominciamo questa avventura nella rete consapevoli del fatto che, se per un verso, un blog è certamente uno strumento innovativo ed agile, dall'altro è poco utilizzato per trattare argomenti giuridici e legali in senso lato. Pur tuttavia iniziamo questo esperimento proprio con l'intento di avvicinare al mondo del diritto e dei tribunali quanti vedono in esso un groviglio inestricabile di regole incomprensibili ai più. Un blog ci sembra lo strumento più adatto allo scopo e forse siamo i primi ad utilizzarlo. Lo Studio Legale Giliberti pone a disposizione degli utenti della rete uno spazio di dialogo e confronto sulle tematiche più frequenti del mondo del diritto, aprendo a tutti, colleghi e non, la possibilità di accedere ai servizi legali di consulenza e assistenza del nostro staff, che prontamente risponderà ad ogni vostro quesito o parere con un linguaggio chiaro e comprensibile. I "mostri sacri" dell'attività forense non gradiranno, ammesso che si degneranno mai di visitare il nostro blog, ma la nostra missione è proprio questa: mettere al servizio di tutti la nostra attività e la nostra esperienza decennale.

Quando gli altri......... non vi faranno capire niente! Quando gli altri vi diranno............. che non potete permettervi un avvocato! Quando gli altri........... si "venderanno" al miglior offerente! Quando gli altri................ vi guarderanno dall'alto in basso! Quando non sapete a chi santo rivolgervi perchè un vostro diritto è stato leso!





NOI SAREMO DALLA VOSTRA
PARTE..........SEMPRE!






Studio Legale Giliberti

Avv.Michele Antonio Giliberti

Dr.ssa Nicoletta Giannattasio


83029 Solofra (AV) - Tel. 0825 582053 studiolegalegiliberti@alice.it