mercoledì 17 ottobre 2007

UN PRINCIPIO PERICOLOSO!


MASSIMA

Occupazione abusiva di case popolari – stato di necessità – diritto all’abitazione – insussistenza [art. 54 c.p.; art. 2 Cost.]
Non si configura il reato di occupazione abusiva di case popolari se il fatto è commesso in stato di necessità.
Il “danno grave alla persona”, necessario per la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 54 c.p., si verifica non solo nel caso di lesioni dirette della vita o dell’integrità fisica del soggetto, ma anche nel caso di lesioni indirette: la mancanza di un alloggio costituisce un’ipotesi di lesione indiretta dell’integrità fisica, poiché il diritto di abitazione rappresenta un diritto primario della persona ex art. 2 della Cost
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Commento dello Studio Legale Giliberti & Partners: La Suprema Corte introduce un principio senz'altro lodevole dal punto di vista sociale ed umano ma incontrovertibilmente pericoloso dal punto di vista della tutela dell'ordine pubblico. In questa pronuncia della cassazione si da prevalenza al diritto di abitazione in quanto di rilevanza costituzionale, anche se a parere dello scivente l'art. 2 Cost. parla genericamente di "diritti inviolabili dell'uomo" facendo riferimento "all'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Appare chiaro il ricorso ad un'interpretazione estensiva della norma costituzionale che però va contro un orientamento consolidato secondo il quale "lo stato di bisogno può essere valutato ai fini della quantificazione della pena e della concessione delle attenuanti generiche, ma non legittima l'applicazione dell'esimente dello stato di necessità (sez. IV 85/169364), per la cui sussistenza si richiede un rigoroso rapporto tra l'azione e l'inevitabilità del pericolo di un danno grave alla persona, in quanto non è lecito sopperire allo stato di bisogno mediante commissioni di reato" .




SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 27 giugno – 26 settembre 2007, n. 35580
(Presidente Morelli – Relatore Zappia)
Motivi della decisione


Con sentenza del 4.2.2005 il Tribunale di Roma condannava D. G., concesse le circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 600,00 di multa, avendola ritenuta responsabile del reato di occupazione abusiva di immobile di proprietà dell'Iacp.Con sentenza dell'1.12.2006 la Corte di Appello di Roma confermava la decisione impugnata.Avverso tale sentenza l'imputata propone ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto diversi profili.Col primo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione dell'art. 606, co. 1, lett. d) ed e), c.p.p. rilevando la mancanza di motivazione in ordine al primo e terzo motivo dell'appello proposto, nonché il carattere solo apparente di tale motivazione in relazione alle questioni di merito poste; e rileva altresì la mancata assunzione di una prova decisiva richiesta ai sensi dell'art. 603 c.p.p.Osserva in particolare la ricorrente che la Corte di Appello aveva escluso lo stato di necessità dedotto da essa imputata in relazione alla contestata occupazione di immobile, senza svolgere alcuna indagine specifica in ordine alle effettive condizioni dell'imputata, alla esigenza di tutela del figlio minore, alla minaccia dell'integrità fisica degli stessi, al carattere assolutamente transitorio del ricorso ai servizi sociali; e rileva inoltre che la Corte suddetta non aveva assolutamente motivato in ordine al mancato accoglimento della richiesta di nuova audizione della teste Pozzi Rita (operante di P.G,. che aveva effettuato il sopralluogo), che avrebbe consentito un esame esaustivo della fattispecie concreta. Col secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione dell'art. 606, co. 1, lett. b) ed e), c.p.p. rilevando la inconsistenza della motivazione in ordine alla non applicazione dell'art. 54 c.p., quantomeno in relazione all'art. 59 dello stesso codice.In particolare rileva la ricorrente che la Corte territoriale non aveva adeguatamente valutato la sussistenza dello stato di necessità, rilevante non solo con riferimento al diritto all'abitazione ma anche con riferimento al diritto alla salvaguardia della salute del figlio, diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, non potendosi omettere di evidenziare che lo stato di pericolo per la ricorrente e per il proprio figlio non era imputabile ad una condotta alla stessa riferibile, non era altrimenti evitabile non avendo l'interessata alcuna possibilità di rivolgersi al mercato libero degli alloggi, e che il fatto commesso era proporzionato al pericolo che lo stesso era destinato scongiurare. Ed ha quindi concluso evidenziando che, se pur nel caso di specie la sussistenza dello stato di necessità non poteva essere affermata con obiettiva certezza stante la carenza nell'istruttoria dibattimentale, tuttavia non poteva nemmeno essere ragionevolmente esclusa, di talché si imponeva l'annullamento dell'impugnata sentenza.Il ricorso è fondato.Sul punto ritiene il Collegio di dover innanzi tutto evidenziare che, ai fini della sussistenza dell'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 c.p., rientrano nel concetto di "danno grave alla persona" non solo la lesione della vita o dell'integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, secondo la previsione contenuta nell'art. 2 della Costituzione; e pertanto rientrano in tale previsione anche quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l'integrità fisica del soggetto in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, fra i quali deve essere ricompresso il diritto all'abitazione in quanto l'esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona.Tale interpretazione estensiva del concetto di danno grave alla persona fa sì peraltro, siccome evidenziato da questa Corte (Cass. sez. II, 19.3.2003 n. 24290), che "più attenta e penetrante deve essere l'indagine giudiziaria diretta a circoscrivere la sfera di azione dell'esimente ai soli casi in cui siano indiscutibili gli elementi costitutivi della stessa - necessità e inevitabilità - non potendo i diritti dei terzi essere compressi se non in condizioni eccezionali, chiaramente comprovate".Nel caso di specie è stata per contro totalmente omessa qualsiasi indagine sia al fine di verificare le effettive condizioni dell'imputata, l'esigenza di tutela del figlio minore, la minaccia dell'integrità fisica degli stessi, sia al fine di verificare la sussistenza sotto il profilo obiettivo dei requisiti delle necessità ed inevitabilità che, unitamente agli altri elementi richiesti dall'art. 54 c.p., consentono di ritenere la sussistenza dell'esimente in parola.Alla stregua di quanto sopra si impone l'annullamento dell'impugnata sentenza, rimanendo in tale pronuncia assorbiti gli ulteriori rilievi sollevati dalla ricorrente, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.
P.Q.M.
La Corte annulla l'impugnata sentenza e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.

martedì 2 ottobre 2007

CASSAZIONE: RISCHIA LA CELLA CHI NON SI FERMA AL POSTO DI BLOCCO

(AGI) - Roma, 1 ott. - Puo' finire in carcere per resistenza a pubblico ufficiale chi non si ferma a un posto di blocco dei Carabinieri e, in sella ad un motorino, si da' alla fuga ad alta velocita' per non essere raggiunto dalle Forze dell'ordine. Lo sottolinea la Cassazione, annullando con rinvio una sentenza pronunciata nel 2005 dal Gip del Tribunale di Palermo che aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di un ragazzo all'epoca ventenne "perche' il fatto non sussiste". L'imputato era accusato di non aver ottemperato, mentre era alla guida del suo ciclomotore, all'alt intimatogli dai Carabinieri con la paletta d'ordinanza. Il ragazzo, secondo l'accusa, era poi fuggito "ad altissima velocita' per le strade strette del centro storico, ponendo cosi' in pericolo l'incolumita' dei militari e degli utenti della strada". Il giudice per le indagini preliminari aveva invece ritenuto non ravvisabili in tale condotta gli estremi della resistenza, dato che l'imputato non aveva messo in atto, a suo parere, alcuna "attivita' minacciosa o violenta" nei confronti dei militari. Il reato, secondo il giudice, sarebbe stato ravvisabile se, invece, il ragazzo "per forzare il posto di blocco, avesse diretto il veicolo contro i Carabinieri che intendevano fermarlo". Contro tale decisione aveva proposto ricorso il procuratore della Repubblica del capoluogo siciliano, secondo il quale il reato di resistenza, per essere configurabile, non richiede che la violenza o la minaccia sia necessariamente diretta contro il pubblico ufficiale. Dello stesso parere la Suprema Corte (sesta sezione penale, sentenza n.35826) che ha ritenuto fondato il ricorso del procuratore. "Ad integrare l'elemento materiale del delitto in esame - spiegano gli Ermellini - e' sufficiente la violenza o la minaccia cosiddetta impropria, che puo' essere esercitata anche su persona diversa dal pubblico ufficiale operante o sulle cose e che comprende ogni comportamento idoneo ad impedire, a ostacolare o a frustrare l'esplicazione della pubblica funzione". .